martedì 11 ottobre 2011

Forse il segreto della vita è davvero fare rumore: sbattere la porta, pestare i piedi, urlare al cielo.
Forse il segreto è non avere paura di imporsi, non temere i rifiuti.
Forse il segreto è nei discorsi schietti, nelle parole esclamate, nei sorrisi ostentati.
Cerchi per tutta la vita di soffrire in silenzio, di entrare in punta di piedi nell’esistenza delle persone e solo dopo aver bussato.
Cerchi di bisbigliare le tue ragioni e contenere i tuoi sentimenti in un sospiro.
Esprimi con un sorriso tutte le urla del mondo e con una smorfia le lacrime di sempre.
Tieni a bada le tue passioni e imprigioni in una stretta di mano gli abbracci che non puoi dare.
Fingi disinteresse per non essere invadente e acidità per non essere debole.
Fino a quando ti accorgi che hai sbagliato tutto e ormai non sai fare altro.
Ti accorgi che hai perso tempo e ne è passato così tanto.
Scopri anche tu il segreto.
Scopri che basterebbe dire tutto, intromettersi bruscamente, affermare di conoscere il destino. Basterebbe avere più malizia. E non ce l’hai .. e non ce l’avrai mai.
E guardi passare i giorni, migrare dal tempo che ti resta a quello che hai vissuto senza accorgertene.
Scopri che “è andata, pazienza, a volte capita”.
Scopri la pazienza, l’innocenza, l’insofferenza.
Scopri il segreto; i segreti .
Scopri che non funziona come nei libri, non vince il più debole, la più mite, il più altruista.
Nella realtà, nel mondo, nella vita, vince il più felice.
Nella vita vince chi cerca il bello in ogni cosa e poi crede sia tutto ciò che c’è di bello.
Vince chi ha il sorriso più grande.
Vince chi sa apprezzare le note più nascoste di una canzone, chi scova il particolare in una scenografia, chi riesce a giudicare un libro dalla copertina.
Vince chi sa ballare tutta la notte senza avere male ai piedi.
Vince chi riesce a ridere al cinema senza sentirsi stupido.
Vince chi riesce a passare davanti al banco del pesce e sentire profumo.
Nella vita vince chi sa chiudere gli occhi senza aver voglia di piangere.
Chiudi gli occhi! .. scopri se hai vinto.

lunedì 25 aprile 2011

Tutti gli inverni dell'anno

Non è che voi siate più irrispettosi di noi, più sfacciati forse per intenderci. La mia generazione non è mai stata più educata, solamente più repressa. E d’altra parte per noi vivere era infinitamente più semplice che per voi. Voglio dire, non avevamo niente noi a parte degli ideali e, quella era l’unica cosa che potevam perdere. Certo, sepolta sotto un metro di neve a un passo dall’assideramento la notte di S.Stefano, probabilmente gli ideali sono l’ultima cosa di cui ti importa.
Quel giorno lo zio Giacomo chiamò mia sorella Ninetta per portare il pasto “ai compagni”, come li chiamava lui, ma lei era troppo occupata a fare “la donna di casa”. Sapete, brutta fase quella post-adolescenziale, non che allora esistessero di questi pensieri, eri bambino fino a che non portavi il pane a casa, e dopo adulto, ma mia sorella Ninetta, ah! Quella è una che dalla fase post-adolescenziale non è mai uscita. Beh! Lei “si sentiva in dovere di rendersi utile all’armonia funzionale dell’ambiente domestico” a suo dire. Ogni tanto se ne usciva con una di queste frasi assurde atteggiandosi come un’attrice del cinema e agitando quelle sue manacce callose credendo di rendersi aggraziata, a quel punto non sapevi mai se riderle in faccia o chiuderti in un dignitoso silenzio. Io mi limitai a prendere il contenitore col cibo ed avviarmi come ogni sera verso il fiume.
Quel Natale fece davvero un gran freddo, beh forse non più del solito, ma era il primo che passavo senza un paio di calzini sani, la scelta era tra la cena e il filo da rammendo, una scelta non troppo difficile da prendere in verità. Ad ogni modo, oramai avevo fatto l’abitudine, su è giù da quel fiume sotto il sole cocente, una tempesta di neve o qualsiasi altro fottuto evento naturale, ogni santo giorno, uno dopo l’altro, se eri ancora vivo era perché avevi fatto l’abitudine.
La verità è che alla mia età ancora non capivo perfettamente cosa succedesse o cosa stessimo facendo, però sapevo che se eri figlia di partigiani, perente di partigiani e complice di partigiani, allora avevi soltanto due possibilità: o fingevi che tutto ciò non accadesse, o ce la mettevi tutta per essere all’altezza, per essere partigiana anche tu in qualche modo e, la prima vi assicuro era molto più difficile. Sapevo che mio padre era una brava persona e mia madre lo era anche lei aldilà dei suoi problemi, sapevo che loro stavano dalla parte del cuore anche se questa coincideva con il torto o la miseria o i sacrifici. Sapevo in qualche modo che era la cosa giusta.
Scelsi di fare la cosa giusta anche quella sera, indossai il cappotto e imbracciai il cesto con la cena.
Fuori nevicava, eheh .. ce ne avrei messo di tempo a dimenticare tutta quella neve, mi sembra ancora di sentirmela cadere addosso e scivolar sui capelli. Eh si, ne veniva giù tanta neve, e tirava anche un bel vento, non ricordo bene, ma probabilmente allora non ci pensai molto. Forse pensavo a chi mi stava aspettando nel capanno giù a valle, a se qualcuno di loro aveva già imbracciato la chitarra e a cosa avremmo cantato insieme quella sera.
Arrivai al fiume come al solito dopo una ventina di minuti, iniziavo ad aver freddo al naso, era normale, significava che era tutto come sempre. Affondai le mani nelle ampie tasche del cappotto mentre il cesto mi pendeva dal braccio; il vento agitava le chiome degli alberi con un fischio poco rassicurante.
Nell’aria c’era una specie di canto divino. Sapete ero piccola allora, e in Dio ci credevo, beh forse non in quello della chiesa, credevo nel Dio di mio padre. Tutte le sere, lui, si sedeva con me sul letto e insieme recitavamo una preghiera, non una di quelle scritte, la inventavamo noi, era un discorso più che una preghiera, era uno sfogo forse. Forse era che a mio padre non gli era restato molto a parte Dio, e ci si era aggrappato maledettamente, e io che mi ero attaccata a lui a Dio ci stavo aggrappata indirettamente. Insomma credevo che ci fosse qualcosa, qualcosa di buono a governare il mondo, una speranza ultima, una legge universale, un grande giudice. E quel giudice stava cantando quella sera, cantava una di quelle canzoni d schiavi neri. Non è che se ne sapesse granché di schiavi neri nella mia famiglia, ma ogni tanto se ne sentiva parlare anche da noi e sembrava che fossero uguali, i neri e i partigiani dico. In qualche occasioni avevo addirittura sentito uno di quei dischi blues e avevo visto mia madre ballarci sopra. Com’era bella quando ballava, rendeva più bello anche mio padre.
Quella sera ballavano le nuvole sopra la mia testa e la neve, Dio cantava in cielo e tutte quelle voci di schiavi neri l’accompagnavano e potevo sentirle, potevo sentirle tutte intorno. Pensai che se Dio guardandomi da lassù stava cantando doveva avere un motivo per farlo e pensai che forse il motivo era che era felice, insomma se Dio era felice perché non avrei dovuto esserlo io, prima o poi?
Sveltii il passo al ritmo del contrabbasso e del pianoforte, il clarinetto seguiva una melodia tutta sua, non ci stava male, ma era tutta sua.
I miei passi si susseguivano l’un l’altro con meticolosa attenzione, la neve era fresca e spessa.
Quando caddi a terra mi venne quasi da sorridere.
Dovevo essere stata davvero una stupida per riuscire a cadere anche guardandomi i piedi. La neve comunque mi era entrata nel cappotto e nelle scarpe e dovevo alzarmi rapidamente. Al braccio mi pendeva ancora il cesto, controllai che non fosse caduto nulla a terra e cercai di farmi forza.
Ma quando puntai le gambe per sollevarmi un dolore acuto mi confuse i pensieri, la gamba mi bruciava e un brivido mi percorreva la schiena ogni volta che cercavo di muoverla. Mi trascinai fino al salice accanto al fiume e mi ci sedetti al fianco. Avevo amato i salici da quando ero una bambina.
La neve continuava a cadere.
I salici piangenti avevano quei lunghi rami così leggeri, mi ricordavano i capelli di mia madre.
La neve continuava a cadermi addosso.
È che i salici, non te lo dicono mai loro perché son tristi, li vedi chinati su loro stessi con la folta chioma a ricoprirli, ma l’han mica mai detto che son tristi.
La neve era così bianca.
Voglio dire, uno potrebbe anche pensare che non son tristi affatto, che non stanno piangendo, forse nascondono un sorriso, o vogliono sentire il vento fra i rami.
E così soffice.
Si insomma, non riesco a credere che un salice possa essere triste standosene tutto il giorno in riva a un fiume, all’aria fresca, senza preoccupazioni.
Poi il freddo si impossessò anche della mia mente.
Cadeva la neve.

La presa sul mio braccio era calda.
Quando aprii gli occhi a dire il vero non ebbi molto tempo per capire quel che succedeva. Però quelle mani calde le ricordo, non avrei mai potuto dimenticarle, erano senza dubbio le mani più calde che avessi mai sentito. Beh non è che ne avessi sentite molte fino ad allora e nella mia famiglia non si aveva mai gran caldo. Ma erano due mani davvero calde, calde e morbide e, il loro tocco sul mio viso, credevo che fosse quella la sensazione che si provava al risveglio dalla morte, si insomma quando gli angeli ti prendono per mano. Dovevo avere un’aria buffa e inquietante allo stesso tempo, perché benché il ragazzo che mi teneva il viso tra le mani tentasse di sorridere, il suo sguardo era evidentemente preoccupato. Vedevo la neve che continuava a scendere e il cielo era leggermente più scuro di quando avevo perso conoscenza, non doveva essere passato molto tempo.
Il giovane mi prese in braccio; aveva gli occhi grigi, grigi come il cielo, e avresti detto che era solo colpa del temporale se erano grigi, che sarebbero ritornati del loro azzurro splendente appena si fossero dissolte le nuvole e fosse tornato il sole. E come il sole erano i capelli, biondo cenere e tagliati a scodella.
Mia madre diceva che quelli erano i tedeschi; diceva che erano come gli angeli ma con un fucile in mano e avevano lo sguardo di ghiaccio e di loro nemmeno la morte si fidava. Però il mio angelo il fucile lo aveva lasciato a terra e i suoi occhi erano grigi solo a causa del temporale e le sue mani calde tanto da sciogliere qualunque sguardo.
Intanto la gelida neve mi aveva completamente addormentato la gamba e l’unica sensazione che provavo era un caldo piacevole dove il giovane soldato poggiava le mani cercando di non farmi scivolare giù.
Certo avevo paura, avevo paura perché ero in balia di uno sconosciuto e perché i compagni giù al fiume dicevano che con quelli come noi i tedeschi ci facevano i bottoni e le saponette e io mi piacevo tanto nella mia forma umana. E avevo paura perché del mio corpo non sentivo più nulla e sapevo che non avrei avuto altre occasioni per rivedere quegli occhi e risentire quelle mani.
Vostro nonno, sapete, lui ha degli occhi meravigliosi, scuri come la notte quando non c’è la luna e grossi come il cielo quando non c’è la notte. E le sue mani ora sono grosse e callose come un tempo, solo più ruvide. Non sono mai calde, nemmeno d’estate con il caldo più torrido, vostro nonno ha delle mani gelide e questo mi consola in un certo senso:risentire mani calde come quelle di quel ragazzo mi darebbe i brividi.
Allora però erano il mio unico punto di riferimento e credevo che sarei potuta rimanere in quella situazione per l’eternità pur di continuare a sentire quel calore.
La neve continuava a scagliarsi su di noi, scivolando sulla giacca con la quale il soldato mi aveva coperta e attaccandosi invece ai lineamenti morbidi di questo.
Camminò per una decina di minuti nella direzione da me indicatagli fino a che non scorgemmo la capanna dei compagni nascosta tra gli alberi. Dal camino usciva un fumo spesso e grigio come la nebbia e dalle finestre sprangate filtrava una debole luce tremolante. Il soldato si avvicinò con prudenza e il rumore dei suoi passi si fece impercettibile.
Mi posò a terra davanti alla porta togliendomi di dosso la giacca perché nessuno potesse scoprirlo, poi afferrò le mie mani quasi congelate con la sua grande e calda mentre si portava l’indice dell’altra alla bocca: probabilmente voleva assicurarsi che non rivelassi a nessuno l’accaduto.
Sparì nella nebbia con la neve che si avventava furiosa contro la terra bagnata.
Avrei dato qualsiasi cosa per rivedere quegli occhi.

“Avrei dato qualsiasi cosa per rivedere quegli occhi.” Questo pensai in quel momento e mi stupii poco tempo dopo di quanto il mio qualsiasi fosse limitato. Quello era un “qualsiasi” troppo grande per me, troppo macabro, troppo.
Quando i soldati entrarono in casa nessuno ebbe il tempo di pensare alla cosa migliore da fare. In casa c’eravamo solamente io, Ninetta e i nostri genitori. Io scappai al piano superiore nascondendomi nell’armadio, beh, forse non era una delle soluzioni più scaltre, ma ero solo una bambina in fondoe quello era il posto in cui mi nascondevo la notte dopo un brutto sogno.
Sentii il rumore di tre spari in cucina e accovacciata nell’armadio mi nascosi la testa tra le ginocchia, la voce di mio padre solo un sussurro, quelle dei soldati un macabro canto.
Affondai il viso nel maglione rosa antico che mi stava accanto, era il preferito di mia madre; ne sentii il profumo sapendo che sarebbe stata l’ultima volta.
Il rumore dei pesanti passi sulle scale scricchiolanti di legno si fece sempre più cadenzato e vicino. Sembrava andasse al ritmo del fumo che usciva dal camino, fluido, inconsistente, “fumoso”.
E color fumo erano quegli occhi, grigi come sempre, sembravano non avere spessore, non avessero un fondo. Ma non c’erano scuse quella volta, non c’erano giustificazioni, c’erano quegli occhi e il cielo stellato e infinito.
Niente nuvole, niente pioggia, occhi grigi.
Li vidi quando aprì l’armadio trovandomi immersa nel maglione di mia madre. Restò immobile, a fissare, gli occhi senza spessore sempre fissi e inespressivi, ma la bocca semiaperta in una smorfia di stupore.
Rapidi si sentirono salire le scale pesanti passi.
Come fosse un ricordo, nella penombra della notte si portò l’indice alle labbra socchiudendo le ante dell’armadio. Dalla fessura riuscii a intravedere un uomo pallido e biondo che teneva in mano una tanica. Quello che sentii furono solo parole spigolose in una lingua che non riuscivo a capire, poi il ragazzo dagli occhi grigi alzò furiosamente il braccio e indicò la porta urlando qualcosa! L’altro soldato sgusciò rapidamente fuori dalla stanza.
Allora le ante dell’armadio si riaprirono e il viso dell’angelo col fucile si fece più rilassato. Mi sorrise cercando qualcosa nelle tasche dell’uniforme. Tirò fuori una foto ingiallita e stropicciata su cui compariva una donna slanciata con tra le braccia un bambino in fasce. I capelli di lei erano ricci e lucenti tanto quanto i miei e le cadevano sulle spalle allo stesso modo. Pensai che fosse sua moglie, anche se non ne ebbi mai la conferma.
Mi prese la mano e la strinse attorno alla fotografia sorridendo. Risentii così quelle mani caldissime e poi più nulla. Le ante si richiusero, la scala scricchiolo di nuovo e infine la porta di casa sbatté violentemente.
Quella sera la nostra casa fu l’unica della borgata a non andare a fuoco. Quella sera fu anche l’ultima in cui vidi quel ragazzo. Di lui mi restò solo questa foto ingiallita e la sensazione calda di quelle mani sulla pelle.
Era come se l’uomo non avesse lasciato sopravvivere me, ma una parte della sua dignità, come se l’avermi risparmiata in qualche modo potesse servire a diminuire il numero di croci che sarebbero state piantate in collina quell’anno.
La vita pian piano riprese il suo abituale corso anche da noi. Sembrava incredibile che gli uomini trovassero la forza di dimenticare certi momenti, certe vuoti.
Si continuarono a ricostruire le case, ognuno a rattoppare la propria vita, a rincorrere la propria ombra. Gli uomini ripresero a portare gli animali al pascolo, i bambini a giocare per le vie, le donne esposero fiori colorati fuori dalle case, e sapevano che sarebbe bastato il primo inverno a farli morire. Tutti.