lunedì 11 gennaio 2010

E fuori c'è il mare

Qualche volta si pensa di essere immortali e il mondo ci ruoti attorno. Poi la gente smette di guardarci con occhi sognanti, il nostro aspetto peggiora e la nostra essenza diviene meno interessante.
Creato da mani esperte in un mondo così diverso dall’attuale: chi avrebbe mai pensato che avrei concluso i miei giorni in un umido appartamento norvegese?
Kirsten entrò in cucina con i capelli arruffati e l’aria assonnata di sempre. Qualche volta mi sarebbe piaciuto sapere com’era il luogo in cui dormiva, di quale colore le tende del bagno o di che tessuto il sofà in sala. Ma il mio tempo si era sempre solo speso in cucina. Mi riportò alla realtà il fischio della macchina del caffè. Vedere lei, Kirsten, con quella zazzera arancione nel tepore caldo del mattino, mi ricordava tanto Jean e gli anni andati. Jean, colui che mi creò, aveva lo stesso colore ramato di capelli, soltanto ne aveva molti meno e molto meno splendenti.
Era il 1920 e la lotta di classe stava mettendo in subbuglio tutta l’Europa: anche l’aria dei piccoli paesi di provincia iniziava a scaldarsi.
Scommetterei qualsiasi cosa che Jean volesse essere uno di quei giovani rivoluzionari, ma ormai era vecchio e la sera davanti al camino si limitava a parlarne gelosamente male.
Morì con questa sua malinconica invidia lasciandomi ai suoi figli che mi vendettero al migliore offerente, ed io, mi ritrovai sul mare. La cosa strana era il saper d’essere circondati da un’immensa quantità d’acqua e il non averla mai neppure vista, mai un’onda o il riflesso della luna quando calava la notte. Tutto ciò che sapevo mi derivava dalle chiacchiere dei viaggiatori, loro ascoltavano la mia musica ed io le descrizioni di luoghi che non avrei mai visto, compreso il mare, che più di ogni altro mi affascinava, poiché vi ero sopra ogni giorno e non mi era dato di sapere come fosse fatto se non per qualche romantico giovanotto o sensibile fanciulla che ogni tanto si lasciava andare a un commento su di esso. Ad ogni modo, per sentire la gente parlare davanti a me, si doveva aspettare che Theodor non suonasse e, questa non era una condizione facile da ottenere, per la verità. Theodor era il suonatore di sassofono della nave, anche detto SassofonoThed, perché quando era sul palco non esistevano un “Theodor” e un “sassofono”, ma una sola cosa formata da entrambi. Thed era uno che suonava solo sul palco, non gli piaceva suonare per hobby, o provava o si esibiva, diceva che era presuntuoso pensare di potersi allietare da soli con la propria musica, gli piaceva ascoltare quella degli altri, per questo quando scendeva non suonava. Il vero problema era che Thed non scendeva mai davvero dal palco, o meglio era uno che non smetteva mai davvero di suonare. Per intenderci, lui diceva : “per fare jazz, ci vuole fegato. E per vivere, ci vuole fegato. Per vivere insomma, ci vuole jazz.” Era convinto che il Jazz fosse uno stile di vita, l’unico possibile per essere felici oltretutto, così viveva una “vita Jazz” a suo dire. In effetti Thed era uno che col sax ci sapeva fare, e anche con la vita non se la cavava male. “ Se son finito in questo mondo” diceva “ la mia vita precedente allora doveva fare davvero schifo”. Quella sua propensione ad un allegro cinismo poi, sembrava allontanare un po’ tutti, specialmente le donne, ma delle donne non gliene importava granché e l’unica che forse gli fosse mai interessata non sapeva nemmeno della sua esistenza.
Alla fine gli rimasi solamente io e, lui non sembrava soffrirne più di tanto. Veniva da me tutte le sere dopo aver suonato e mi parlava dei pensieri che gli affollavano la testa, ed io, per tutta risposta diffondevo una nuova musica nel bar. Credo che il barista abbia sempre pensato che parlasse con lui, ma Thed non avrebbe perso così tanto tempo per una persona.
Sembrava sarebbe andata avanti così in eterno. Ma se per vivere ci vuole fegato, bisogna anche saperselo tenere caro lungo il cammino. Il medico gli diagnosticò una cirrosi epatica e pochi mesi di vita. “Morirò felice e pieno di Whisky” commentò lui ridacchiando. In realtà non morì né felice né pieno di Whisky. Mi comprò per avermi in cabina con lui e iniziò ad uscire soltanto per fare il suo spettacolo. Sì, insomma, a quello non poteva rinunciare, o sarebbe dovuto scendere per sempre dal palco e dunque smettere di suonare, e in fin dei conti quindi a vivere.
Il resto del tempo lo passava a leggere vecchi romanzi fumando sigari e ascoltando musica.
Ogni tanto osservava il mio ferro luminoso e il legno color ebano, poi tornava a farsi gli affari suoi. Mi lasciò solo a questo mondo come previsto dopo pochi mesi dandomi in eredità ad Agnese, sì, proprio quella ragazza che non sapeva neppure che esistesse.
Agnese era norvegese, con la pelle albina e i capelli castano chiaro. Mi portò con sé ad Oslo, nella sua pasticceria. Non mi usava mai per la musica, diceva che sarebbe stato come profanare l’anima di Thed e, lei non poteva profanare l’anima di chi nemmeno conosceva. Quando morì, qualche anno fa, mi diede a sua figlia Kirsten che di tutta quella storia di SassofonoThed non ne sapeva nulla. Fu strano per me tornare a riprodurre musica, forse il mio vecchio cuore legnoso non resse il colpo, o forse semplicemente si rifiutò di “suonare” ancora per qualcuno che non fosse il mio Thed.
Un giorno smisi di funzionare, così, tutto d’un tratto. Kirsten mi guardò interdetta togliendo il disco. Continuò comunque a tenermi lì. Diceva che ci sono oggetti e persone che un giorno smettono di “cantare”, ma non per questo significa che non abbiano più nulla da raccontare, semplicemente gli manca la forza di farlo cantando.
Era strana Kirsten, era strana quasi quanto Thed, era una che vive Jazz per capirci. Diceva che ero fortunato ad essere grammofono perché dovevo limitarmi a riprodurre ciò che altri avevano già inventato, mentre gli uomini non potevano comportarsi in questo modo. Avrei voluto farle capire che gli sbagli sono una delle cose che gli uomini si dovevano tenere più care. Quando inventi sbagliare è lecito, quanto copi al contrario tutti si aspettano che tu lo faccia almeno nei migliori dei modi. Io non ero felice di essere grammofono, ero semplicemente felice d’ “essere”. Fossi stato uomo sarei stato felice d’essere uomo. La parola che contiene l’essenza della felicità è “essere” non ciò che l’accompagna.
Ho visto passare sotto i miei occhi migliaia di persone, diverse guerre devastare il mondo, e sempre qualcuno con la forza di ricostruire ogni cosa.
Ho ascoltato Thed e assaporato l’aria profumata di cioccolata di Agnese. Ora poso stanco su di un tavolino affacciato ad una finestra sul fiume, ogni mattina Kirsten mi dice ciò che farà, ciò che ha già fatto o ciò che vorrebbe ma non farà mai.
Qualcuno penserà che io non possa avere sogni, un grammofono i sogni non li ha! Ma i miei sogni sono infiniti, posso avere sogni diversi in base a chi mi possiede o al disco che risuona grazie a me. Io sono il cantastorie che non muore mai, l’osservatore di mondi che cambiano ogni giorno.
E come dice Kirsten: che io non canti più nessuna storia, non significa che non ne abbia più da raccontare!