martedì 11 ottobre 2011

Forse il segreto della vita è davvero fare rumore: sbattere la porta, pestare i piedi, urlare al cielo.
Forse il segreto è non avere paura di imporsi, non temere i rifiuti.
Forse il segreto è nei discorsi schietti, nelle parole esclamate, nei sorrisi ostentati.
Cerchi per tutta la vita di soffrire in silenzio, di entrare in punta di piedi nell’esistenza delle persone e solo dopo aver bussato.
Cerchi di bisbigliare le tue ragioni e contenere i tuoi sentimenti in un sospiro.
Esprimi con un sorriso tutte le urla del mondo e con una smorfia le lacrime di sempre.
Tieni a bada le tue passioni e imprigioni in una stretta di mano gli abbracci che non puoi dare.
Fingi disinteresse per non essere invadente e acidità per non essere debole.
Fino a quando ti accorgi che hai sbagliato tutto e ormai non sai fare altro.
Ti accorgi che hai perso tempo e ne è passato così tanto.
Scopri anche tu il segreto.
Scopri che basterebbe dire tutto, intromettersi bruscamente, affermare di conoscere il destino. Basterebbe avere più malizia. E non ce l’hai .. e non ce l’avrai mai.
E guardi passare i giorni, migrare dal tempo che ti resta a quello che hai vissuto senza accorgertene.
Scopri che “è andata, pazienza, a volte capita”.
Scopri la pazienza, l’innocenza, l’insofferenza.
Scopri il segreto; i segreti .
Scopri che non funziona come nei libri, non vince il più debole, la più mite, il più altruista.
Nella realtà, nel mondo, nella vita, vince il più felice.
Nella vita vince chi cerca il bello in ogni cosa e poi crede sia tutto ciò che c’è di bello.
Vince chi ha il sorriso più grande.
Vince chi sa apprezzare le note più nascoste di una canzone, chi scova il particolare in una scenografia, chi riesce a giudicare un libro dalla copertina.
Vince chi sa ballare tutta la notte senza avere male ai piedi.
Vince chi riesce a ridere al cinema senza sentirsi stupido.
Vince chi riesce a passare davanti al banco del pesce e sentire profumo.
Nella vita vince chi sa chiudere gli occhi senza aver voglia di piangere.
Chiudi gli occhi! .. scopri se hai vinto.

lunedì 25 aprile 2011

Tutti gli inverni dell'anno

Non è che voi siate più irrispettosi di noi, più sfacciati forse per intenderci. La mia generazione non è mai stata più educata, solamente più repressa. E d’altra parte per noi vivere era infinitamente più semplice che per voi. Voglio dire, non avevamo niente noi a parte degli ideali e, quella era l’unica cosa che potevam perdere. Certo, sepolta sotto un metro di neve a un passo dall’assideramento la notte di S.Stefano, probabilmente gli ideali sono l’ultima cosa di cui ti importa.
Quel giorno lo zio Giacomo chiamò mia sorella Ninetta per portare il pasto “ai compagni”, come li chiamava lui, ma lei era troppo occupata a fare “la donna di casa”. Sapete, brutta fase quella post-adolescenziale, non che allora esistessero di questi pensieri, eri bambino fino a che non portavi il pane a casa, e dopo adulto, ma mia sorella Ninetta, ah! Quella è una che dalla fase post-adolescenziale non è mai uscita. Beh! Lei “si sentiva in dovere di rendersi utile all’armonia funzionale dell’ambiente domestico” a suo dire. Ogni tanto se ne usciva con una di queste frasi assurde atteggiandosi come un’attrice del cinema e agitando quelle sue manacce callose credendo di rendersi aggraziata, a quel punto non sapevi mai se riderle in faccia o chiuderti in un dignitoso silenzio. Io mi limitai a prendere il contenitore col cibo ed avviarmi come ogni sera verso il fiume.
Quel Natale fece davvero un gran freddo, beh forse non più del solito, ma era il primo che passavo senza un paio di calzini sani, la scelta era tra la cena e il filo da rammendo, una scelta non troppo difficile da prendere in verità. Ad ogni modo, oramai avevo fatto l’abitudine, su è giù da quel fiume sotto il sole cocente, una tempesta di neve o qualsiasi altro fottuto evento naturale, ogni santo giorno, uno dopo l’altro, se eri ancora vivo era perché avevi fatto l’abitudine.
La verità è che alla mia età ancora non capivo perfettamente cosa succedesse o cosa stessimo facendo, però sapevo che se eri figlia di partigiani, perente di partigiani e complice di partigiani, allora avevi soltanto due possibilità: o fingevi che tutto ciò non accadesse, o ce la mettevi tutta per essere all’altezza, per essere partigiana anche tu in qualche modo e, la prima vi assicuro era molto più difficile. Sapevo che mio padre era una brava persona e mia madre lo era anche lei aldilà dei suoi problemi, sapevo che loro stavano dalla parte del cuore anche se questa coincideva con il torto o la miseria o i sacrifici. Sapevo in qualche modo che era la cosa giusta.
Scelsi di fare la cosa giusta anche quella sera, indossai il cappotto e imbracciai il cesto con la cena.
Fuori nevicava, eheh .. ce ne avrei messo di tempo a dimenticare tutta quella neve, mi sembra ancora di sentirmela cadere addosso e scivolar sui capelli. Eh si, ne veniva giù tanta neve, e tirava anche un bel vento, non ricordo bene, ma probabilmente allora non ci pensai molto. Forse pensavo a chi mi stava aspettando nel capanno giù a valle, a se qualcuno di loro aveva già imbracciato la chitarra e a cosa avremmo cantato insieme quella sera.
Arrivai al fiume come al solito dopo una ventina di minuti, iniziavo ad aver freddo al naso, era normale, significava che era tutto come sempre. Affondai le mani nelle ampie tasche del cappotto mentre il cesto mi pendeva dal braccio; il vento agitava le chiome degli alberi con un fischio poco rassicurante.
Nell’aria c’era una specie di canto divino. Sapete ero piccola allora, e in Dio ci credevo, beh forse non in quello della chiesa, credevo nel Dio di mio padre. Tutte le sere, lui, si sedeva con me sul letto e insieme recitavamo una preghiera, non una di quelle scritte, la inventavamo noi, era un discorso più che una preghiera, era uno sfogo forse. Forse era che a mio padre non gli era restato molto a parte Dio, e ci si era aggrappato maledettamente, e io che mi ero attaccata a lui a Dio ci stavo aggrappata indirettamente. Insomma credevo che ci fosse qualcosa, qualcosa di buono a governare il mondo, una speranza ultima, una legge universale, un grande giudice. E quel giudice stava cantando quella sera, cantava una di quelle canzoni d schiavi neri. Non è che se ne sapesse granché di schiavi neri nella mia famiglia, ma ogni tanto se ne sentiva parlare anche da noi e sembrava che fossero uguali, i neri e i partigiani dico. In qualche occasioni avevo addirittura sentito uno di quei dischi blues e avevo visto mia madre ballarci sopra. Com’era bella quando ballava, rendeva più bello anche mio padre.
Quella sera ballavano le nuvole sopra la mia testa e la neve, Dio cantava in cielo e tutte quelle voci di schiavi neri l’accompagnavano e potevo sentirle, potevo sentirle tutte intorno. Pensai che se Dio guardandomi da lassù stava cantando doveva avere un motivo per farlo e pensai che forse il motivo era che era felice, insomma se Dio era felice perché non avrei dovuto esserlo io, prima o poi?
Sveltii il passo al ritmo del contrabbasso e del pianoforte, il clarinetto seguiva una melodia tutta sua, non ci stava male, ma era tutta sua.
I miei passi si susseguivano l’un l’altro con meticolosa attenzione, la neve era fresca e spessa.
Quando caddi a terra mi venne quasi da sorridere.
Dovevo essere stata davvero una stupida per riuscire a cadere anche guardandomi i piedi. La neve comunque mi era entrata nel cappotto e nelle scarpe e dovevo alzarmi rapidamente. Al braccio mi pendeva ancora il cesto, controllai che non fosse caduto nulla a terra e cercai di farmi forza.
Ma quando puntai le gambe per sollevarmi un dolore acuto mi confuse i pensieri, la gamba mi bruciava e un brivido mi percorreva la schiena ogni volta che cercavo di muoverla. Mi trascinai fino al salice accanto al fiume e mi ci sedetti al fianco. Avevo amato i salici da quando ero una bambina.
La neve continuava a cadere.
I salici piangenti avevano quei lunghi rami così leggeri, mi ricordavano i capelli di mia madre.
La neve continuava a cadermi addosso.
È che i salici, non te lo dicono mai loro perché son tristi, li vedi chinati su loro stessi con la folta chioma a ricoprirli, ma l’han mica mai detto che son tristi.
La neve era così bianca.
Voglio dire, uno potrebbe anche pensare che non son tristi affatto, che non stanno piangendo, forse nascondono un sorriso, o vogliono sentire il vento fra i rami.
E così soffice.
Si insomma, non riesco a credere che un salice possa essere triste standosene tutto il giorno in riva a un fiume, all’aria fresca, senza preoccupazioni.
Poi il freddo si impossessò anche della mia mente.
Cadeva la neve.

La presa sul mio braccio era calda.
Quando aprii gli occhi a dire il vero non ebbi molto tempo per capire quel che succedeva. Però quelle mani calde le ricordo, non avrei mai potuto dimenticarle, erano senza dubbio le mani più calde che avessi mai sentito. Beh non è che ne avessi sentite molte fino ad allora e nella mia famiglia non si aveva mai gran caldo. Ma erano due mani davvero calde, calde e morbide e, il loro tocco sul mio viso, credevo che fosse quella la sensazione che si provava al risveglio dalla morte, si insomma quando gli angeli ti prendono per mano. Dovevo avere un’aria buffa e inquietante allo stesso tempo, perché benché il ragazzo che mi teneva il viso tra le mani tentasse di sorridere, il suo sguardo era evidentemente preoccupato. Vedevo la neve che continuava a scendere e il cielo era leggermente più scuro di quando avevo perso conoscenza, non doveva essere passato molto tempo.
Il giovane mi prese in braccio; aveva gli occhi grigi, grigi come il cielo, e avresti detto che era solo colpa del temporale se erano grigi, che sarebbero ritornati del loro azzurro splendente appena si fossero dissolte le nuvole e fosse tornato il sole. E come il sole erano i capelli, biondo cenere e tagliati a scodella.
Mia madre diceva che quelli erano i tedeschi; diceva che erano come gli angeli ma con un fucile in mano e avevano lo sguardo di ghiaccio e di loro nemmeno la morte si fidava. Però il mio angelo il fucile lo aveva lasciato a terra e i suoi occhi erano grigi solo a causa del temporale e le sue mani calde tanto da sciogliere qualunque sguardo.
Intanto la gelida neve mi aveva completamente addormentato la gamba e l’unica sensazione che provavo era un caldo piacevole dove il giovane soldato poggiava le mani cercando di non farmi scivolare giù.
Certo avevo paura, avevo paura perché ero in balia di uno sconosciuto e perché i compagni giù al fiume dicevano che con quelli come noi i tedeschi ci facevano i bottoni e le saponette e io mi piacevo tanto nella mia forma umana. E avevo paura perché del mio corpo non sentivo più nulla e sapevo che non avrei avuto altre occasioni per rivedere quegli occhi e risentire quelle mani.
Vostro nonno, sapete, lui ha degli occhi meravigliosi, scuri come la notte quando non c’è la luna e grossi come il cielo quando non c’è la notte. E le sue mani ora sono grosse e callose come un tempo, solo più ruvide. Non sono mai calde, nemmeno d’estate con il caldo più torrido, vostro nonno ha delle mani gelide e questo mi consola in un certo senso:risentire mani calde come quelle di quel ragazzo mi darebbe i brividi.
Allora però erano il mio unico punto di riferimento e credevo che sarei potuta rimanere in quella situazione per l’eternità pur di continuare a sentire quel calore.
La neve continuava a scagliarsi su di noi, scivolando sulla giacca con la quale il soldato mi aveva coperta e attaccandosi invece ai lineamenti morbidi di questo.
Camminò per una decina di minuti nella direzione da me indicatagli fino a che non scorgemmo la capanna dei compagni nascosta tra gli alberi. Dal camino usciva un fumo spesso e grigio come la nebbia e dalle finestre sprangate filtrava una debole luce tremolante. Il soldato si avvicinò con prudenza e il rumore dei suoi passi si fece impercettibile.
Mi posò a terra davanti alla porta togliendomi di dosso la giacca perché nessuno potesse scoprirlo, poi afferrò le mie mani quasi congelate con la sua grande e calda mentre si portava l’indice dell’altra alla bocca: probabilmente voleva assicurarsi che non rivelassi a nessuno l’accaduto.
Sparì nella nebbia con la neve che si avventava furiosa contro la terra bagnata.
Avrei dato qualsiasi cosa per rivedere quegli occhi.

“Avrei dato qualsiasi cosa per rivedere quegli occhi.” Questo pensai in quel momento e mi stupii poco tempo dopo di quanto il mio qualsiasi fosse limitato. Quello era un “qualsiasi” troppo grande per me, troppo macabro, troppo.
Quando i soldati entrarono in casa nessuno ebbe il tempo di pensare alla cosa migliore da fare. In casa c’eravamo solamente io, Ninetta e i nostri genitori. Io scappai al piano superiore nascondendomi nell’armadio, beh, forse non era una delle soluzioni più scaltre, ma ero solo una bambina in fondoe quello era il posto in cui mi nascondevo la notte dopo un brutto sogno.
Sentii il rumore di tre spari in cucina e accovacciata nell’armadio mi nascosi la testa tra le ginocchia, la voce di mio padre solo un sussurro, quelle dei soldati un macabro canto.
Affondai il viso nel maglione rosa antico che mi stava accanto, era il preferito di mia madre; ne sentii il profumo sapendo che sarebbe stata l’ultima volta.
Il rumore dei pesanti passi sulle scale scricchiolanti di legno si fece sempre più cadenzato e vicino. Sembrava andasse al ritmo del fumo che usciva dal camino, fluido, inconsistente, “fumoso”.
E color fumo erano quegli occhi, grigi come sempre, sembravano non avere spessore, non avessero un fondo. Ma non c’erano scuse quella volta, non c’erano giustificazioni, c’erano quegli occhi e il cielo stellato e infinito.
Niente nuvole, niente pioggia, occhi grigi.
Li vidi quando aprì l’armadio trovandomi immersa nel maglione di mia madre. Restò immobile, a fissare, gli occhi senza spessore sempre fissi e inespressivi, ma la bocca semiaperta in una smorfia di stupore.
Rapidi si sentirono salire le scale pesanti passi.
Come fosse un ricordo, nella penombra della notte si portò l’indice alle labbra socchiudendo le ante dell’armadio. Dalla fessura riuscii a intravedere un uomo pallido e biondo che teneva in mano una tanica. Quello che sentii furono solo parole spigolose in una lingua che non riuscivo a capire, poi il ragazzo dagli occhi grigi alzò furiosamente il braccio e indicò la porta urlando qualcosa! L’altro soldato sgusciò rapidamente fuori dalla stanza.
Allora le ante dell’armadio si riaprirono e il viso dell’angelo col fucile si fece più rilassato. Mi sorrise cercando qualcosa nelle tasche dell’uniforme. Tirò fuori una foto ingiallita e stropicciata su cui compariva una donna slanciata con tra le braccia un bambino in fasce. I capelli di lei erano ricci e lucenti tanto quanto i miei e le cadevano sulle spalle allo stesso modo. Pensai che fosse sua moglie, anche se non ne ebbi mai la conferma.
Mi prese la mano e la strinse attorno alla fotografia sorridendo. Risentii così quelle mani caldissime e poi più nulla. Le ante si richiusero, la scala scricchiolo di nuovo e infine la porta di casa sbatté violentemente.
Quella sera la nostra casa fu l’unica della borgata a non andare a fuoco. Quella sera fu anche l’ultima in cui vidi quel ragazzo. Di lui mi restò solo questa foto ingiallita e la sensazione calda di quelle mani sulla pelle.
Era come se l’uomo non avesse lasciato sopravvivere me, ma una parte della sua dignità, come se l’avermi risparmiata in qualche modo potesse servire a diminuire il numero di croci che sarebbero state piantate in collina quell’anno.
La vita pian piano riprese il suo abituale corso anche da noi. Sembrava incredibile che gli uomini trovassero la forza di dimenticare certi momenti, certe vuoti.
Si continuarono a ricostruire le case, ognuno a rattoppare la propria vita, a rincorrere la propria ombra. Gli uomini ripresero a portare gli animali al pascolo, i bambini a giocare per le vie, le donne esposero fiori colorati fuori dalle case, e sapevano che sarebbe bastato il primo inverno a farli morire. Tutti.

lunedì 11 gennaio 2010

E fuori c'è il mare

Qualche volta si pensa di essere immortali e il mondo ci ruoti attorno. Poi la gente smette di guardarci con occhi sognanti, il nostro aspetto peggiora e la nostra essenza diviene meno interessante.
Creato da mani esperte in un mondo così diverso dall’attuale: chi avrebbe mai pensato che avrei concluso i miei giorni in un umido appartamento norvegese?
Kirsten entrò in cucina con i capelli arruffati e l’aria assonnata di sempre. Qualche volta mi sarebbe piaciuto sapere com’era il luogo in cui dormiva, di quale colore le tende del bagno o di che tessuto il sofà in sala. Ma il mio tempo si era sempre solo speso in cucina. Mi riportò alla realtà il fischio della macchina del caffè. Vedere lei, Kirsten, con quella zazzera arancione nel tepore caldo del mattino, mi ricordava tanto Jean e gli anni andati. Jean, colui che mi creò, aveva lo stesso colore ramato di capelli, soltanto ne aveva molti meno e molto meno splendenti.
Era il 1920 e la lotta di classe stava mettendo in subbuglio tutta l’Europa: anche l’aria dei piccoli paesi di provincia iniziava a scaldarsi.
Scommetterei qualsiasi cosa che Jean volesse essere uno di quei giovani rivoluzionari, ma ormai era vecchio e la sera davanti al camino si limitava a parlarne gelosamente male.
Morì con questa sua malinconica invidia lasciandomi ai suoi figli che mi vendettero al migliore offerente, ed io, mi ritrovai sul mare. La cosa strana era il saper d’essere circondati da un’immensa quantità d’acqua e il non averla mai neppure vista, mai un’onda o il riflesso della luna quando calava la notte. Tutto ciò che sapevo mi derivava dalle chiacchiere dei viaggiatori, loro ascoltavano la mia musica ed io le descrizioni di luoghi che non avrei mai visto, compreso il mare, che più di ogni altro mi affascinava, poiché vi ero sopra ogni giorno e non mi era dato di sapere come fosse fatto se non per qualche romantico giovanotto o sensibile fanciulla che ogni tanto si lasciava andare a un commento su di esso. Ad ogni modo, per sentire la gente parlare davanti a me, si doveva aspettare che Theodor non suonasse e, questa non era una condizione facile da ottenere, per la verità. Theodor era il suonatore di sassofono della nave, anche detto SassofonoThed, perché quando era sul palco non esistevano un “Theodor” e un “sassofono”, ma una sola cosa formata da entrambi. Thed era uno che suonava solo sul palco, non gli piaceva suonare per hobby, o provava o si esibiva, diceva che era presuntuoso pensare di potersi allietare da soli con la propria musica, gli piaceva ascoltare quella degli altri, per questo quando scendeva non suonava. Il vero problema era che Thed non scendeva mai davvero dal palco, o meglio era uno che non smetteva mai davvero di suonare. Per intenderci, lui diceva : “per fare jazz, ci vuole fegato. E per vivere, ci vuole fegato. Per vivere insomma, ci vuole jazz.” Era convinto che il Jazz fosse uno stile di vita, l’unico possibile per essere felici oltretutto, così viveva una “vita Jazz” a suo dire. In effetti Thed era uno che col sax ci sapeva fare, e anche con la vita non se la cavava male. “ Se son finito in questo mondo” diceva “ la mia vita precedente allora doveva fare davvero schifo”. Quella sua propensione ad un allegro cinismo poi, sembrava allontanare un po’ tutti, specialmente le donne, ma delle donne non gliene importava granché e l’unica che forse gli fosse mai interessata non sapeva nemmeno della sua esistenza.
Alla fine gli rimasi solamente io e, lui non sembrava soffrirne più di tanto. Veniva da me tutte le sere dopo aver suonato e mi parlava dei pensieri che gli affollavano la testa, ed io, per tutta risposta diffondevo una nuova musica nel bar. Credo che il barista abbia sempre pensato che parlasse con lui, ma Thed non avrebbe perso così tanto tempo per una persona.
Sembrava sarebbe andata avanti così in eterno. Ma se per vivere ci vuole fegato, bisogna anche saperselo tenere caro lungo il cammino. Il medico gli diagnosticò una cirrosi epatica e pochi mesi di vita. “Morirò felice e pieno di Whisky” commentò lui ridacchiando. In realtà non morì né felice né pieno di Whisky. Mi comprò per avermi in cabina con lui e iniziò ad uscire soltanto per fare il suo spettacolo. Sì, insomma, a quello non poteva rinunciare, o sarebbe dovuto scendere per sempre dal palco e dunque smettere di suonare, e in fin dei conti quindi a vivere.
Il resto del tempo lo passava a leggere vecchi romanzi fumando sigari e ascoltando musica.
Ogni tanto osservava il mio ferro luminoso e il legno color ebano, poi tornava a farsi gli affari suoi. Mi lasciò solo a questo mondo come previsto dopo pochi mesi dandomi in eredità ad Agnese, sì, proprio quella ragazza che non sapeva neppure che esistesse.
Agnese era norvegese, con la pelle albina e i capelli castano chiaro. Mi portò con sé ad Oslo, nella sua pasticceria. Non mi usava mai per la musica, diceva che sarebbe stato come profanare l’anima di Thed e, lei non poteva profanare l’anima di chi nemmeno conosceva. Quando morì, qualche anno fa, mi diede a sua figlia Kirsten che di tutta quella storia di SassofonoThed non ne sapeva nulla. Fu strano per me tornare a riprodurre musica, forse il mio vecchio cuore legnoso non resse il colpo, o forse semplicemente si rifiutò di “suonare” ancora per qualcuno che non fosse il mio Thed.
Un giorno smisi di funzionare, così, tutto d’un tratto. Kirsten mi guardò interdetta togliendo il disco. Continuò comunque a tenermi lì. Diceva che ci sono oggetti e persone che un giorno smettono di “cantare”, ma non per questo significa che non abbiano più nulla da raccontare, semplicemente gli manca la forza di farlo cantando.
Era strana Kirsten, era strana quasi quanto Thed, era una che vive Jazz per capirci. Diceva che ero fortunato ad essere grammofono perché dovevo limitarmi a riprodurre ciò che altri avevano già inventato, mentre gli uomini non potevano comportarsi in questo modo. Avrei voluto farle capire che gli sbagli sono una delle cose che gli uomini si dovevano tenere più care. Quando inventi sbagliare è lecito, quanto copi al contrario tutti si aspettano che tu lo faccia almeno nei migliori dei modi. Io non ero felice di essere grammofono, ero semplicemente felice d’ “essere”. Fossi stato uomo sarei stato felice d’essere uomo. La parola che contiene l’essenza della felicità è “essere” non ciò che l’accompagna.
Ho visto passare sotto i miei occhi migliaia di persone, diverse guerre devastare il mondo, e sempre qualcuno con la forza di ricostruire ogni cosa.
Ho ascoltato Thed e assaporato l’aria profumata di cioccolata di Agnese. Ora poso stanco su di un tavolino affacciato ad una finestra sul fiume, ogni mattina Kirsten mi dice ciò che farà, ciò che ha già fatto o ciò che vorrebbe ma non farà mai.
Qualcuno penserà che io non possa avere sogni, un grammofono i sogni non li ha! Ma i miei sogni sono infiniti, posso avere sogni diversi in base a chi mi possiede o al disco che risuona grazie a me. Io sono il cantastorie che non muore mai, l’osservatore di mondi che cambiano ogni giorno.
E come dice Kirsten: che io non canti più nessuna storia, non significa che non ne abbia più da raccontare!

domenica 20 dicembre 2009

Quando ti accorgi che non morrai pecora nera ...

Se si prendesse in considerazione il concetto convenzionale di moda, non sarebbe eccessivamente complicato riuscire ad ignorarla. Basterebbero qualche accorgimento, un po’ di buona volontà e l’ostinazione di non cedere palesemente ai meccanismi della società, tuttavia, personalmente, trovo più corretto identificare tale concetto con il termine di tendenza. La tendenza non è ciò che piace, ma ciò che piace agli altri, o meglio ciò che agli altri viene fatto piacere. Non è nemmeno ciò che è bello ma ciò che viene presentato come tale. Insomma, la tendenza non è nulla, non è moda, non è praticità, non è qualità, la tendenza è solo “soldi.È quel fenomeno per cui bisogna sempre indossare il capo d’abbigliamento con la marca del momento e avere in tasca l’ultimo modello di cellulare, o per il quale la gente si chiede “perché tu abbia ancora in cucina quelle vecchie tende arancioni quando tutti sanno che è il viola il colore di stagione”. Insomma la tendenza è di un’infinita superficialità, ci scorre addosso ogni giorno circondandoci, ma non può entrarci dentro fino a quando non siamo noi a permetterglielo. Purtroppo osservandoci intorno si possono notare le non poche persone che hanno permesso alla tendenza di entrare in loro e, la cosa peggiore è che il più delle volte questo accade senza che uno se ne renda conto.Io per prima potrei essere una persona che senza accorgersene ha ceduto alla tendenza. Tuttavia cerco di prestare molta attenzione al mio comportamento in questo ambito, poiché credo che tutto ciò che ha origine da una riflessione, (per quanto sbagliata essa possa essere), non può venire sminuito.Premesso ciò, la moda è tutta un’altra cosa. Non si può serbare la speranza di non farne parte, nemmeno per un minuto, ci nasciamo con la moda, noi. Non v’è modo di restarne fuori. Non è un meccanismo, a differenza della tendenza, è la società. E non ci scorre a fianco né dentro, siamo noi a scorrere in lei. È come un grande ingranaggio di cui gli uomini sono i bulloni e, sì, senza di essi l’ingranaggio non potrebbe funzionare, ma è quest’ultimo a dar loro un posto e una funzione.4 Maggio 1994, ore 15.45: nacqui, nacqui già come bullone e presi posto nello spazio a me riservato per condurre la mia vita, permettendo volente o nolente all’ingranaggio di funzionare. Il tempo di vedere per la prima volta la luce del sole ed ero già totalmente intrappolata nella moda. Intanto sono passati quindici anni e da quello che De Andrè chiamava “il ballo mascherato della celebrità” ancora non ho capito come allontanarmi. Nessuno lo ha mai capito e nessuno più che altro lo ha mai voluto.L’ha progettato l’uomo l’ingranaggio, parte dopo parte, senza nemmeno immaginare a cosa stava dando origine probabilmente, ora sarebbe troppo complicato “smontarlo”. La moda è tutto ciò che è ora. Non si troverà mai in un negozio un oggetto, in un ambiente un’idea, su un giornale una notizia fuori moda, forse non di tendenza, questo si, ma fuori moda, no.Ci si può anche illudere di essere migliori, o alternativi, o quant’altro, si è comunque vivi e con le stesse necessità di tutti, perciò non diversi dagli altri. Con la vita ci si deve convivere in qualsiasi caso, non sarebbe meglio iniziare si da subito?Probabilmente si, forse sarebbe la cosa più logica, non complicarsi la vita già piena di problemi con degli ulteriori. Rassegnarsi all’idea che non si può far nulla per migliorare le cose e tentare di convivere pacificamente con l’immoralità di certi sistemi. Perché la moda è qualcosa di insidioso e perfido e mi piace pensare che so ignorarla.Purtroppo non è così e allora mi impegno almeno ad ignorare la tendenza. Per ciò che riguarda quest’ultima ho l’inconscia propensione a detestare e provare un naturale ribrezzo per tutto iò che la massa ama. Questo potrebbe portare a pensare lecitamente che anche il mio comportamento sia in qualche modo dettato dalla volontà di apparire in un certo modo alla gente. Tuttavia posso assicurare che non è questo il mio intento, semplicemente non posso permettermi di pensare a come la gente mi vede, o smetterei d’essere me stessa ( e Dio come sembra qualunquista questa frase).Per cui sono giunta alla personale conclusione che crearsi tante preoccupazioni è del tutto inutile, tanto ci sarà sempre qualcuno pronto a criticarti.La cosa importante è avere dei principi fissi sui quali basare il proprio intero stile di vita. A questo punto se si è davvero convinti di ciò che si fa, quello che le altre persone credono non conta e dunque l’unico modo per uscire dal vizioso circolo dei pregiudizi è urlare un “chissenefrega” .“Non me ne frega niente se anch’io sono sbagliato, spiacere è il mio piacere, io amo essere odiato” (Cirano, F. Guccini).Per la moda invece il discorso è un altro, in quel caso far finta di nulla non aiuta. Forse sarebbe il modo per vivere in maniera apparentemente serena o forse per essere sereni davvero, ma io questo non so farlo, non so trovare moralmente accettabile l’ingranaggio.Non so smettere di pensare che prima o dopo verranno degli uomini pronti se non a distruggerlo a costruirne uno meno difettoso. Non so rassegnarmi all’idea che non si possa nemmeno tentare se pur inutilmente di reagire. Non lo so fare e probabilmente questo mi porterà solamente a grandi delusioni, ma è un’eventualità che sono pronta ad affrontare nel caso fosse inevitabile. Lo sono per tutti quelli che come me hanno fiducia e vogliono lottare e, in quello che fanno ci credono davvero e anche per quelli che non ci credono ma sanno che è la cosa giusta.Perché per ogni cento persone che non ci piacciono ce ne sarà almeno una che ci verrà difficile dimenticare e per la quale vale la pena di sopportare le altre novantanove. Perché ci sarà sempre una tendenza pronta a cancellare le origini di una moda e per questo bisognerà che ci sia sempre alemno una persona pronta a ricordarsele. Perché in qualche modo “Ho ancora la forza che serve a camminare, picchiare ancora contro, per non lasciarmi stare, ho ancora quella forza che ti serve quando dici – si comincia – ”. (Ho ancora la forza, F. Guccini)

P.S.Ludo questo è il tema e scrivendolo mi sono accorta che è la migliore (e non necessariamente buona) risposta che potrei dare al tuo "quando è moda è moda" e al seguito ;) ..